“Le temps qui reste” è il trionfo della vita

Il film di Ozon è la storia potente di una fine ineluttabile ma prematura. La storia di un uomo che deve fare i conti troppo presto con se stesso e col suo (breve) vissuto. Ed è anche la storia di legami che sopravvivono alla morte e di fratture familiari irreparabili.

La “trilogia del lutto”

Secondo film della trilogia del lutto. Dopo “Sotto la sabbia” (Sous le sable, 2000) troviamo un altro personaggio che deve fare i conti con la realtà: Romain, però, a differenza di Marie, non deve affrontare la morte della persona amata, bensì la propria, vicina quanto inevitabile. Come con il primo film della trilogia Ozon crea una pellicola fatta di silenzi, di sguardi, di dure parole ma anche di dolci sorrisi.

Trama

Romain è un fotografo a cui, improvvisamente, viene diagnosticato un cancro: le speranze sono poche e l’uomo decide di non sottoporsi alla chemioterapia e di usare il poco “tempo che resta” per fare i conti con il suo passato e accettare il proprio destino.

Il tempo: sfuggevole protagonista

Ed è forse proprio il tempo a giocare un ruolo determinante quanto sfuggente nella narrazione: in un continuo intreccio di presente e passato, il tempo inizia a perdere il proprio valore. I giorni perdono la loro importanza: tutto si riduce a un fluire inevitabile quanto privo di significato. Tutto sta per finire: la “scadenza” della vita è prossima. Il futuro non esiste perché a Romain non è permesso di viverlo. Il tempo che resta a Romain diviene una sorta di limbo, una presenza percepibile ma invisibile, priva di qualsiasi valore. E questa sospensione che si crea uccide una certa routine, una routine che annebbia le vite di tutti noi. La nebbia di una quotidianità frivola scompare, permettendo alla luce del sole di illuminare ciò che davvero è importante nella vita di Romain.

Ozon e Virilio: cinema e filosofia francese che si intrecciano

Se, come sosteneva Paul Virilio, la velocità della quotidianità moderna porta a l’inevitabile scomparsa del mondo, la malattia di Romain, nella sua indiscussa (e indiscutibile) tragicità, acquista una dimensione antropologicamente salvifica: il dilatarsi del tempo porta alla scomparsa della velocità e dell’accelerazione e ne consegue un ritrovamento dell’io. Ritrovamento che viene anche messo in scena in più di un’occasione: in molti flashback Romain torna a fare i conti con il suo passato, torna a vedere e toccare tutte quelle emozioni ed esperienze genuine quanto innocenti e vere, prive dell’ipocrisia e della falsità del mondo “adulto”. Un mondo compromesso da un routine forzata che, però, ritorna a essere vita se posta di fronte alla morte.

Il protagonista ritorna con la mente alla sua infanzia in più di una scena e, se è vero che la vicinanza della morte aiuta a individuare le cose e le persone importanti, è anche vero che consente di capire la bellezza e l’unicità del proprio vissuto. Così Romain rivive con gioia il suo passato, a volte con rimpianto, distacco e dolore, ma sarà proprio, figuratamente, attraverso il proprio passato che egli dirà addio alla vita.

Mark Fisher e la presentificazione

Il filosofo e sociologo britannico Mark Fisher ha trattato, in molte sue opere, il tema della presentificazione, ovvero lo schiacciamento sul presente del futuro e del passato. Fisher illustra questo processo come una conseguenza della società capitalista e il tutto è ricollegabile alle dinamiche basate sulla velocità e sul “presente perenne” create da essa. Quando a Romain viene diagnosticata la malattia notiamo un grande cambiamento: egli rinuncia a un lavoro prestigioso a Tokyo e rinuncia alla sua carriera. Proprio in questo momento inizia quel dispiegamento del tempo di cui parlavamo prima. Romain inizia a dedicare il suo tempo ai rimpianti del passato: è la morte della presentificazione. Nella vita di Romain non vi è più solo il presente perenne, ma rinascono le tre dimensioni temporali: e se il futuro è soggetto a limiti e le attese devono essere propriamente ridimensionate, questo non vale per il passato che acquisisce grande spessore, arrivando addirittura, nel finale, a intrecciarsi con il presente, confondendo le due dimensioni.

La famiglia e l’incomunicabilità

Tuttavia, Romain non riuscirà a riconciliarsi con la famiglia. Infatti, nonostante il tentativo di comunicare la terribile situazione ai suoi genitori e a sua sorella, egli verrà sopraffatto dai “superflui” problemi di quest’ultima, che è in crisi con il marito. La sorella di Romain sembra essere al centro del nucleo familiare fin da subito: la donna fragile e madre affidabile che gode, forse, di una posizione privilegiata in famiglia per il semplice fatto di aver “regalato” due nipotini a sua madre. E così la madre e la sorella rimangono due figure per lo più piatte, a cui Romain nasconde la sua sofferenza (non importa se per egoismo o per altruismo). Guadagna invece grande importanza il padre di Romain: un uomo che nasconde la sua sofferenza, una sofferenza forse sopraffatta dai frivoli problemi della moglie e della figlia.

È che forse non ho mai imparato a parlare di me.

Padre di Romain

Dirà l’uomo a Romain in un dialogo in macchina in cui emerge anche un passato turbolento fatto di tradimenti verso la moglie. Ed è forse nella superficialità del padre di Romain, nella sua incapacità di aprirsi davvero e in una totale apparente rinuncia alla felicità che rivediamo l’uomo medio: colui che non ha fatto ancora i conti con il suo passato, un passato insoddisfacente che non è pronto ad affrontare. E se Romain, a causa del cancro, arriverà a una sorta di pace interiore con se stesso, questo non succederà presumibilmente al personaggio del padre, che resterà annebbiato fino alla fine dalla sopportazione della frivola quotidianità di cui parlavamo prima.

In questo la morte annunciata diventa un privilegio: una luce che spazza via l’oscurità portata dalle ipocrisie della vita e che uccide, prima del soggetto stesso, quella sorta di velo di Maya schopenhaueriano che egli si è creato, permettendo, anche se solo per un fugace momento, di apprezzare la realtà. Romain vive perché è consapevole che morirà presto.

Romain e Sasha, tra amore e dolore

Romain prenderà le distanze anche dal suo compagno, Sasha, forse per difenderlo e preservarlo da una sicura sofferenza ventura.

Non sento più nulla, solo un vago desiderio e ogni tanto un po’ di tenerezza.

Romain

Dirà Romain allontanando il compagno anche in malo modo, ma senza riuscire a raccontare il vero problema. L’impossibilità di comunicare con la famiglia e con l’uomo che ama potrebbe essere spiegata in molti modi, ma è proprio Romain, in una conversazione con sua nonna, a chiarire le ragioni che lo spingono a tenere quel peso dentro di sé.

La nonna: l’ancora di salvezza

È la nonna paterna, infatti, l’unico membro della famiglia al quale Romain riuscirà a raccontare la verità e la ragione è, forse, molto semplice:

Perché tu sei come me, morirai presto.

Romain

Le scene con la nonna costituiscono, però, i momenti più toccanti della pellicola. Un rapporto puro, intimo, fatto di ascolto ed empatia reciprochi. L’amore sconfinato tra nonna e nipote emerge con enorme potenza: entrambi sanno che quella sarà l’ultima volta, il momento per dirsi ciò che non ci si è mai detti, il difficilissimo addio finale di fronte a una realtà spietata.

La nonna diventa uno dei personaggi più importanti del film: è in lei e attraverso di lei che Romain riesce a rompere l’apparentemente invalicabile barriera di incomunicabilità che si è creata con la famiglia.

Sai Romain, stanotte vorrei andarmene con te.

Laura (nonna di Romain)

Dice la nonna all’improvviso. Lei non può accettare, infatti, di sopravvivere al nipote e, se egli deve morire, è giusto che la loro dipartita avvenga nello stesso momento. Durante il dialogo la nonna prova più volte a convincere Romain ad aprirsi con la sua famiglia, ma l’uomo non vuole cambiare idea:

-Non è qualcosa che vorrebbero sentirsi dire. E mi diverte immaginare le loro facce quando dovranno fare i conti con la realtà. -Non pensi che potrebbero avere rimorsi, sensi di colpa? -Non mi interessa. Tanto non ci sarò più.

Dialogo tra Romain e Laura

Romain non è pronto ad affrontare la realtà o forse, più semplicemente, non è pronto a condividerla. E se nasconde la verità a Sacha per amore, lo stesso non vale per la sua famiglia: la frattura che si è creata tra di loro è irreparabile e il cancro non riuscirà certo a riconciliarli, o per lo meno, come dice Romain, non gli porterà altro che commiserazione. La nonna è l’unica figura positiva della famiglia di Romain, l’unica con cui l’uomo riesce ad aprirsi, perché lei è pronta ad ascoltarlo e ad aprirsi a lui.

Anime che si spogliano

È molto interessante la scena in cui Romain chiede alla nonna se può dormire con lei:

Certo, ma lo sai che dormo nuda.

Laura

Risponderà la nonna. Ma a Romain non interessa e a lei nemmeno. In fondo si sono già spogliati delle proprie paure e del proprio passato poche ore prima e ormai non c’è più niente da nascondere.

Si dice che “Far entrare qualcuno nelle proprie paure sia più intimo di andarci a letto”. Nel dialogo tra Romain e sua nonna (una perfetta Jeanne Moreau) c’è stata una completa condivisione del vissuto: uno spogliarsi metaforico di rimorsi, rimpianti, paure e drammi. Le due anime sono state poste completamente nude l’una di fronte all’altra: anime che sopravvivranno ai due corpi nudi, destinati, come dice lo stesso Romain, a morire in breve tempo.

Il corpo nudo diventa solo un livello di conoscenza ulteriore. Un livello di conoscenza effimero rispetto a quello dell’anima.

La fotografia come mezzo per sopravvivere in eterno

Altro elemento di enorme spessore e importanza è la fotografia: Romain è un fotografo e, nonostante abbandoni il suo lavoro con la scoperta della malattia, continuerà a scattare foto (prettamente personali) per tutto il film. Lo farà, per esempio, prima di salutare la nonna e mentre parla al telefono con la sorella in una delle ultime scene. Le foto rappresentano l’arte di Romain: un’arte che è destinata a sopravvivere al suo creatore. Attraverso le foto, attraverso un procedimento che gli consenti di immortalare gli (ultimi) attimi della sua vita, egli garantisce a se stesso e al ricordo un’immortalità.

Il trionfo della vita

Alla morte, però, si sa, può opporsi sola la vita. Ma come rappresentare uno dei conflitti manichei per eccellenza in una pellicola che affronta l’inevitabile percorso (fisico e psicologico) verso una morte preannunciata e in cui i temi principali sono l’attesa e l’accettazione di una sorte immutabile?

Ozon mette in scena questo tema in modo “nuovo”. L’omosessualità di Romain non gli concede di lasciare eredi (tema su cui la madre torna più di una volta) e lui dice che non gli piacciono i bambini. Entra così in gioco il personaggio di Jany (interpretata da Valeria Bruni Tedeschi), una giovane donna che, a causa della sterilità del marito, non ha figli. Lei e suo marito, però, desiderano ardentemente avere un figlio per coronare la loro vita di coppia. Sarà proprio Romain a fecondare Jany in un triangolo sessuale che, di nuovo, mette completamente in mostra le nudità dei corpi, nella loro bellezza e simmetria (si ha un nudo integrale anche all’inizio nel rapporto tra Romain e Sasha). Un atto ribelle, uno schiaffo finale a quella morte che, come in “Samarcanda”, finirà per raggiungere Romain. Quest’ultimo lascerà tutta la propria eredità al nascituro che, proprio come lo scatto fotografico, gli garantirà di sopravvivere al proprio (infame) destino.

Un ricongiungimento fallito

Anche la scena in cui Romain chiama la sorella al telefono per “riappacificarsi” e chiarire il malinteso è molto significativa. È un modo di scusarsi, sì. È un modo di esprimere amore fraterno. Ma non è niente di più. Romain non corre verso la sorella nonostante lei sia a due passi da lui. Resta a distanza, ci parla al telefono. Il loro rapporto è ormai fratturato in modo irreparabile e, nonostante una leggera e solo apparente distruzione della barriera dell’incomunicabilità, ormai non ci si può fare niente. Ipocrisia, forse una “bugia buona”. Chissà. Quello che è certo è che alcuni rapporti si lacerano per sempre. E non possiamo fare niente per ricrearli.

Quella distanza che Romain non può/vuole colmare fisicamente è la chiara manifestazione di un amore che non può essere pienamente recuperato.

La fine: tra vita e morte

Negli ultimi 20 minuti del film (quelli dopo il testamento) non c’è un dialogo. Solo un continuo scorrere di immagini. Immagini fatte di sguardi, immagini piene di vita. Immagini di un mondo che, nella sua irrequietezza, continuerà a esistere. Nonostante Romain. Nonostante ognuno di noi.

E così, mentre Romain, seduto in spiaggia, contempla il mare, restituisce un pallone carambolato vicino a lui a un bambino e, dopo averlo guardato in faccia, si accorge che il bambino è proprio lui stesso in giovane età. Una somiglianza? Un miraggio? O, forse, il semplice segno di una vita che non sta morendo ma è appena nata?

Romain si sdraia al sole: respira l’aria. Respira il mare. E mentre il sole tramonta, mentre un’altra giornata finisce, cala il buio. E lo spettatore rimane con una sola certezza: la vita di Romain, come il sole al tramonto, se ne è andata.

Conclusione

È difficile realizzare un film che emozioni profondamente senza scadere nel banale o nel patetico. Lo spettatore non può commuoversi di fronte a dialoghi incredibilmente retorici sulla crudeltà della morte e del destino. Non può piangere nella scena in cui Romain esala, su un letto di ospedale e circondato dai suoi parenti, l’ultimo respiro. Non può, perché semplicemente tutto questo non c’è. Il tema viene affrontato egregiamente e in modo per niente banale: ad avere grande importanza sono i sentimenti, l’incomunicabilità, i legami che si rompono e si ricreano. Nonostante il film sia “triste” è, fino all’ultimo minuto, un film pieno di vita: di una vita che lotta fino all’ultimo istante per imporsi sulla morte e che, alla fine, riesce a trionfare. E non la fa con la scena abusata del “miracolo” attraverso il quale Romain riesce a salvarsi. No, Romain morirà. Ma tutto ciò che lui fa prima della conclusione della propria storia, tutto quello che è stato finora analizzato, è il chiaro trionfo della vita sulla morte.

In “Le temps qui reste” non commuove la retorica vuota, ma qualcosa di molto più vero.